Dialogo della Lucania e di un albanese

Un’immagine di accoglienza all’origine delle colonie Arbëreshë in Lucania [1]

Era un giorno del lontano XV secolo. Un albanese aveva appena messo piede nelle terre lucane.

Anni prima era venuto a combattere in nome di un re, un certo Ferdinando d’Aragona, che pare dovesse liberare il suo regno dagli Angioini. Insomma, aveva combattuto in nome di uno sconosciuto. Ma il suo principe così aveva voluto e l’albanese così aveva fatto. E con gran successo.

Poi, allorquando l’Albania fu soggiogata dagli Ottomani, molti decisero di tornare in quelle terre oltre il mare, che avevano contribuito a difendere e che erano sembrate così ospitali.

L’albanese, allora, fu di nuovo in Lucania.

Lucania: Chi sei? Che cerchi in questi luoghi dove la tua stirpe è sconosciuta?

Albanese: Sono un povero Albanese e fuggo dagli uomini che lottano per la mia terra. Ma sono già stato qui, non ricordi?

Lucania: Passano molti viandanti per le mie lande. E molti popoli mi hanno occupata. Greci, romani, longobardi, normanni…

Albanese: Ma io venni a liberarti da mani straniere. Ero al seguito del mio principe. Grande uomo, il principe Skanderbeg! Contrastammo l’esercito angioino con tutte le nostre forze e infine ti liberammo.

Lucania: Mi liberaste? Eppure sento ancora il rumore degli scudi. Il sangue bagna ancora la mia pelle. Le urla strazianti smuovono ancora le mie foglie. Tu stesso odori di uomo. Dove sono le tue armi? Con cosa e per cosa combatterai stavolta?

Albanese: Sono qui in pace. Cerco una terra che accolga me e i miei cari. Non siamo più i benvenuti a casa. Ma se non ci vuoi, se tanto le nostre spade ti hanno ferita, allora ci sposteremo altrove.

Lucania: Ho ospitato gente d’ogni lingua e cultura, mercenari e profughi, martiri e razziatori. Ben potevi pensare che avrei accolto anche voi.

La Lucania, mercenaria di accoglienza, aprì le sue braccia al popolo mercenario che poi fu chiamato Arbëreshë.

Accolti dalla terra e rifiutati dagli uomini, che in tutti i modi cercarono di strappargli di dosso fede e identità, gli Arbëreshë si stanziarono nel Vulture a Barile, Ginestra, Maschito (Barilli, Xhinestra, Mashqiti), e verso il Pollino a San Costantino e San Paolo (Shën Kostandini, Shën Pali). Nonostante il volgersi dei secoli e l’accrescersi degli abitanti, seppero parlare la loro lingua e indossare i loro costumi. Non per rifiuto di integrazione, quanto per amore delle loro origini.

Cosicché ancora oggi, se passate in quei luoghi, potete coglierne i tratti e ricordare quanto sia dolce e cara la filoxenia [2], che trasforma la terra in casa e fa convivere gli stranieri come fratelli.

Maria Rosaria Cella

Foto di Ciganovic, tratta da “Il Folklore. Tradizioni, vita e arti popolari”, in Conosci l’Italia, vol. XI, Touring Club Italiano, 1967.

[1] I riferimenti storici sono tratti da Donato M. Mazzeo, Etnografia e Albanesità, Lavello 1986; Rando Devole, L’immigrazione albanese in Italia, 2006. Il dialogo è immaginario.

[2] Ogni riferimento a persone e luoghi che non conoscono o non applicano il concetto di filoxenia non è affatto casuale.

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